A cura di Gaetano Bucci
Come sempre avviene le ricorrenze suscitano ricordi, sentimenti e giudizi diversi. È avvenuto anche per il secondo anniversario del G8 di Genova o, per meglio dire, per i “fatti” legati a quel summit. Di ciò di cui discussero le maggiori potenze mondiali in quei giorni non si ricorda nessuno, di ciò che avvenne tra le strette strade e le anguste piazze della città ligure si ricordano tutti.
Tutti hanno ancora davanti agli occhi lo scontro tra le forze dell’ordine e le decine di migliaia di manifestanti nella stragrande maggioranza pacifici ed appartenenti ad una grande varietà di associazioni e di orientamenti culturali e politici. Tutti, soprattutto, si ricordano di quel Defender dei carabinieri bloccato in piazza Alimonda tra un muro, un cassonetto e un gruppo di manifestanti nel pieno della piega violenta, confusa e indecifrabile che aveva preso la contestazione ai “grandi della Terra”. Tutti hanno ancora davanti agli occhi il giovane Carlo Giuliani con un estintore tra le mani che rimase ucciso dai colpi di pistola del ventenne carabiniere Mario Placanica.
Il primo divenne subito una sorta di mito della palingenesi mancata della società capitalistica, il secondo invece il simbolo negativo dell’eterna violenza degli stati polizieschi. In realtà, nessuno dei due fu eroe. Entrambi, loro malgrado, furono vittime di forze infinitamente più grandi di se stessi. Tutti e due furono ragazzi toccati dallo stesso destino di lotta per la vita e per la dignità sociale; uno in canottiera e jeans combatteva per un ideale, l’altro in divisa dei carabinieri per guadagnare qualche soldo da mandare a casa.
C’era nell’appuntamento di protesta di Genova un po’ di tutto. C’era sopra ogni cosa la volontà di misurare le reciproche forze; da un lato quelle degli stati garanti di un ordine mondiale sempre più “democraticamente” autoritario e totalitario, dall’altro quelle dei popoli che, soprattutto attraverso l’entusiasmo e lo spontaneismo giovanile, chiedeva a gran voce una inversione di rotta nel modello di sviluppo, nelle relazioni tra gli stati, nel rapporto con l’ambiente e la natura.
Fu, anche simbolicamente, l’ultimo scontro tra il modello economico e culturale del capitalismo post-industriale e l’idea di una società fondata su principi e valori non economicistici come la pace, la giustizia, il rispetto della natura e la sostenibilità ambientale. La protesta doveva essere pacifica e civile, ma già nei giorni precedenti si era capito che così non sarebbe stato, e che a Genova ci sarebbe stata “guerriglia urbana”. Pensavano alcuni, soprattutto dell’area anarco-insurrezionalista, in modo grandemente velleitario che così si sarebbe potuto scatenare una sorta di rivoluzione planetaria o che addirittura si sarebbe cambiata la direzione della storia.
Non fu così. Non fu così non perché lo scontro fu violento, ma perché non è così che cambia la storia. Neanche se la protesta fosse stata pacifica sarebbe cambiato granché. Erano già finiti i tempi in cui la storia si orientava secondo quel che “diceva” la piazza. Nuove forme di autocoscienza devono avere i popoli. Nuove forme di lotta e impegno civile, quotidiani e non occasionali, devono essere messi in campo per poter quantomeno contrastare la forza palesemente distruttiva e di egemonia planetaria del moderno turbo-capitalismo.
Forse, la vera rivoluzione oggi sta nel ricucire i legami rotti con quelle “visioni umane” e con quelle “antropologie culturali” per le quali in fondo c’era un “limite” sacro e inviolabile al mutamento storico repetino. La storia effettivamente non fa salti e neanche li consente, a meno che non si voglia andare verso irrimediabili disastri. L’epoca delle rivoluzioni di piazza è finita da tempo.
I fatti di Genova mostrarono questo. Furono per i moderni stati, guidati dai mercati e dalla finanza, una vittoria di Pirro. Le crisi attuali lo stanno mostrando. Di converso furono per il popolo in piazza una sconfitta apparente, perché da allora si è avuta la consapevolezza che altre strade di vera “democrazia e impegno quotidiano” bisogna percorrere.
Nella ricorrenza attuale non sono mancate le vecchie prese di posizione intrise di ideologismo e di ipocrisia. Nichi Vendola, che partecipò alle giornate genovesi e che ne trasse pure ispirazione per un poemetto di resistenza, “In morte di Carlo Giuliani”, che io stesso ebbi modo di presentare a Bari, getta ancora la croce addosso, per la non condivisione di quella lotta, alla sinistra riformista. “Rimozione e rimorso” sono le sue accuse ad una sinistra moderata che si è piegata alla forza dei demoni della finanza e del capitale, dimenticando che dopo quei fatti egli stesso, come presidente della Regione Puglia, ha fece leva sulle forze “retrive” dei moderati di sinistra, trasse e dette appoggio, in modo neanche troppo velato, a certi turbo-capitalisti nostrani.
Stessa cosa si potrebbe dire di Corrado De Benedittis che, rievocando i fatti Genova si dimentica di essere sindaco e uomo delle istituzioni, e afferma: «Il danno più grande che quella repressione ha prodotto, a mio parere, è stato il grigiore politico e culturale in cui le nuove generazioni sono nate e cresciute». Egli non dice che vent’anni fa a Genova ci fu una gran confusione di piazza egemonizzata in modo violento da alcuni gruppi con una risposta ancora più violenta da parte dello “stato in divisa militare”. Egli dice il falso quando lega a quella solo a quella repressione un “grigiore politico” che era già presente nel nostro Paese e che si sarebbe determinato comunque, vista la crisi dei partiti tradizionali e la disaffezione alla politica a partire dai giovani e addirittura dalla scuola. In fondo è la stessa crisi su cui egli stesso ha fatto leva per conquistare la guida di Corato, infischiandosene grandemente dei partiti tradizionali e dei riferimenti nazionali.
Sul profilo di De Benedittis sono stati tanti commenti alla sua rievocazione piuttosto ideologica, espressa nella consueta forma del “politically correct”. Molti sono stati i commenti entusiastici degli aficionados e i like della claque, diversi i commenti off topic e pochissimi quelli veramente critici. Ce n’è stato uno, piuttosto libero e coraggioso, di Raffaele Tatoli che, con disarmante semplicità, ha riassunto in modo obiettivo i termini della rievocazione e lanciato un messaggio di stile al nostro Primo cittadino.
Eccolo: «Mi scusi Sig. Sindaco, ma tra i “grandi” c’era chi lanciava estintori? Mi scusi ma non trovo accettabile questo post…Tutti sanno i fatti della Scuola Diaz, ma tutti sanno di una città messa a ferro e fuoco, di commercianti che con tanta fatica avevano alzato le loro saracinesche per poi subire tutto ciò che sappiamo, è vergognoso anche tutto questo. Tutta la violenza è da condannare! Questo mi sarei aspettato da un uomo delle istituzioni, oltre che dotato di una spiccata intelligenza, come Corrado De Benedittis».
Mi sembra che la questione stia tutta qui, nel senso che debba avere la democrazia nel riconoscimento da una parte delle istituzioni, dall’altra dei sacrosanti diritti del popolo. Poco c’entrano in questo rapporto i lanci di estintori e le pistolettate. Dispiace anche a me che Corrado De Benedittis, oggi uomo delle istituzioni, non abbia evidenziato questa rovinosa caduta di vent’anni fa a Genova.
Siamo obiettivi. Restiamo umani. Guardiamo avanti.