Di Giuseppe Carlucci
Insieme alla Ferula communis, di cui abbiamo parlato nello scorso numero, la Scilla (nome volgare con cui la pianta è conosciuta) è una delle piante più diffuse sull’altopiano delle Murge.
La pianta deve il suo nome scientifico di Urginea, al fatto che cresce in abbondanza nel territorio della tribù araba dei Beni Urgin, presso Bonav in Algeria. Scilla invece deriverebbe dal greco sculleum, che significa straziare, tormentare, chiara allusione alle proprietà venefiche del bulbo.
In dialetto ruvese è chiamata “cipuodd canein” ossia cipolla canina.
Si tratta di una pianta tipica delle zone aride ed è diffusa lungo le coste sia sabbiose che rocciose di tutta l’area mediterranea, (di qui il nome maritima).
Occorre subito precisare che della Scilla esistono due varietà: la bianca e la rossa, il colore si riferisce al bulbo della pianta, la bianca, il cui bulbo ha le dimensioni di una cipolla, non è presente in Italia (se non in minima misura in Sicilia) ma è tipica di altri Paesi dell’area mediterranea come Asia minore, Grecia, Malta, Spagna e Marocco.
Da noi invece è molto diffusa la rossa il cui bulbo può tranquillamente raggiungere e superare il peso di tre chilogrammi. Una delle principali caratteristiche della pianta è quella di fiorire con le prime piogge autunnali (che bagnano il bulbo e ne permettono la fioritura dopo la pausa estiva) in un momento in cui le foglie sono ormai secche o del tutto scomparse.
Lo scapo fiorifero può raggiungere il metro di altezza mentre i fiori sono a grappolo piccoli e bianchi. L’apertura dei fiori avviene in maniera disomogenea dal basso verso l’alto.
La fase della fioritura della pianta dura pochi giorni poi lo scapo inizia a rinsecchire producendo i semi, e dal bulbo emerge la rosetta basale di foglie che crescono sino alla successiva primavera.
Con l’inizio della nuova stagione arida le foglie seccano ed un nuovo ciclo ha inizio. Le foglie sono grandi e di un verde intenso ed a volte il bulbo viene raccolto, messo in vaso e venduto ad ignari turisti come pianta da appartamento. Occorre specificare che la Scilla è una pianta velenosa, in parte ittiotossica, un tempo era usata in Sardegna per la pesca di frodo nei torrenti, inoltre il succo ottenuto dal bulbo veniva mischiato con formaggio o ricotta ed usato come topicida.
Nella farmacopea antica il bulbo della pianta veniva raccolto in agosto dopo i primi acquazzoni estivi e, prima che la pianta fiorisse, tagliato a fette ed essiccato. Esso contiene glucosidi come la scillarene, che produce, effetti simili a quelli della digitale ed indicati negli scompensi cardiaci di tipo congestizio.
Inoltre contiene svariati acidi organici, e la scillasterina. La Scilla è stata una delle piante più utilizzate delle antiche popolazioni del Mediterraneo. Teofrasto (IV-III sec. a.C.) dice che era impiegata in cerimonie espiatorie e per allontanare i sortilegi.
Plinio (I sec. d.C.) narra che veniva appesa come amuleto universale sopra la soglia di casa per tenere lontano i malefici. I Greci piantavano la Scilla sulle tombe e le attribuivano la proprietà di guarire la follia.
In particolare la ricordano Plinio per la sua azione diuretica, Discoride la consigliava per l’idropsia e l’asma, Alberto Magno ne citava l’uso come emmenagogo, tuttavia l’azione più importante svolta dalla Scilla è quella cardiotonica, che fu scoperta alla fine del diciottesimo secolo, ed assai simile a quella di altre piante dette appunto “digitaliche”.
L’utilizzo della Scilla come cardio-tonico è oggi desueto in quanto la concentrazione dei principi attivi può variare fortemente a seconda della preparazione e della qualità della droga.
Da noi tra le popolazioni murgiane la Scilla era un tempo impiegata dai guaritori in quella che potremmo definire “medicina magica”.
Le puerpere, ad esempio, per evitare di perdere il latte, tenevano un bulbo di Scilla sotto il letto. Alcuni la consigliavano come lenitivo dei dolori reumatici alle ginocchia e applicavano il bulbo tritato sulla parte dolorante.
Nella tradizione sarda, nel giuramento fatto in forma di ordalia, che in Barbagia si praticava fino alla prima metà del ‘900, la si mescolava nell’acqua con cui il colpevole si bagnava gli occhi e che, in caso di spergiuro, gli avrebbe procurato la cecità.
I bulbi a contatto con la pelle provocano arrossamenti e prurito per il loro contenuto in rafidi di ossalato di calcio, una sostanza volatile che irrita anche gli occhi.
Un tempo, secondo quanto raccontatomi da un pastore, venivano bolliti e il liquido di cottura utilizzato come insetticida per combattere le mosche.
Da ultimo occorre evidenziare come la pianta sopravviva agli incendi. Infatti, in estate, spesso sulle Murge si verificano piccoli e grandi incendi che bruciano le foglie (ormai secche della pianta) e la parte più esterna dei bulbi senza però intaccarne la vitalità.
Accade così di vedere lande desolate ormai bruciate dal fuoco dalle quali però emergono (come unici fiori) gli scapi di questa pianta.