A cura di Gaetano Bucci
Nel mentre la pandemia sembra allontanarsi, seppure ci siano ancora migliaia di contagi e non meno di cento vittime al giorno, la nostra vita è stata stravolta dalla guerra. Per la prima volta la guerra è entrata in diretta nelle nostre case e nelle nostre vite attraverso la televisione e la rete internet. In Ucraina si accumulano distruzione e morte in una spirale che sembra non avere fine. Zelensky e Putin sembrano essere le figure che oggi interpretano nella storia il bene e il male.
Sappiamo che non è così. Non ci sono solo il bianco e il nero, che sono non-colori e quindi non verità assolute. Di mezzo c’è una complessità storica e un groviglio di interessi che non è affatto facile districare e ancor meno comprendere. La ruota della storia è molto colorata e non lo è affatto con i colori dell’arcobaleno della bandiera della pace, che esprime oggi più una insopprimibile emozione ed aspirazione che una vera prospettiva di ritorno alla normalità.
Oggi la nostra coscienza è scossa dalle bombe e dalle atrocità, dalle immagini violente e dai video raccapriccianti che giungono dalle martoriate terre dell’Ucraina e dalle sue tante belle e laboriose città. La nostra attenzione è presa dai milioni di profughi a cui si deve dare accoglienza e dagli aiuti che bisogna far arrivare in terra ucraina. La nostra preoccupazione è quella di un terzo conflitto mondiale che potrebbe scatenarsi con armi di distruzione di massa e addirittura con quelle atomiche. Dio non voglia. Sarebbe qualcosa di inimmaginabile e che ci rifiutiamo finanche di concepire, dopo quel che si è visto a Hiroshima e Nagasaki, o a Chernobyl e Fukushima.
In questo contesto planetario in cui la vita locale va avanti con la gente presa dalle sue umane, troppo umane, preoccupazioni quotidiane del lavoro, della spesa e dei rincari, il minimo che ci si possa aspettare dalla politica è la resilienza amministrativa e la continenza comunicativa. Se non il silenzio, almeno il sottovoce e il tono basso.
Per prima si dovrebbero fare le cose di cui la comunità ha bisogno. E poi si dovrebbe parlare sempre di ciò di cui la comunità ha bisogno. Assecondare bisogni veri e discutere di bisogni veri, non di bisogni indotti o suggeriti da chi la precarietà e il disagio non lo vive. La discrezione e la serietà sono oggi non solo virtù ma obblighi. Fuori dalla pratica amministrativa dovrebbero rimanere le apparenze, gli esibizionismi, i giochi di potere che si mascherano dietro quelli di piazza.
Invece, dalla nostra amministrazione locale, come in una rappresentazione scenica e caricaturale del Bolero di Ravel, da mesi siamo immersi nella spirale vieppiù roboante e inutile del progetto di “rigenerazione urbana” chiamato “Sciucuà”, un progetto che è falso nel nome e fasullo nella sostanza. Per una amministrazione come quella di Corato, che si è ripromessa la “rivoluzione gentile” delle coscienze, prima ancora che della politica e dei suoi metodi, tenere per mesi sul proscenio della vita pubblica il progetto “Sciucuà”, in cui la mistificazione ha travalicato abbondantemente ogni limite di “pudore del momento storico”, è stato ed è quantomeno fuori luogo.
Non si possono proprio vedere le “ipocrisie conservative” su tre luoghi di Corato come largo Abbazia, via Nicola Salvi e piazza Caduti di via Fani ciascuno abbisognevole di interventi ben diversi dalle riverniciature carnevalesche di pavimentazioni e muri spacciati come interventi di “urbanesimo tattico”. Non si possono proprio sopportare certi costosi maquillage mentre non si vede nessun segno, neanche intenzionale e progettuale, di “urbanesimo strategico, e mentre la città continua ad essere lasciata abbandonata a se stessa nell’incuria del verde, nell’abbandono degli spazi pubblici e nei dissesti stradali spaccano auto e spezzano gambe.
Pare che il progetto “Sciucuà” sia costato sinora oltre centomila euro. Poco importa da dove siano arrivate le risorse se lo scopo non è raggiunto o se, peggio, dietro certi nobili scopi si celino meschini interessi. Da quel che si vede, “Sciucuà” è l’ennesimo spreco di risorse di cui si sta avvalendo, non tanto quel gruppo di giovani coratini attivi, volenterosi e talentuosi che fan riferimento a Corato “Open Space”, quanto viceversa la sparuta schiera di progettisti, architetti ed artisti, forse bravi, ma assolutamente estranei alla città e completamente ignoranti dello spirito degli spazi da “rigenerare”.
Non serve ovviamente fare nomi, né chiedersi se dietro queste pratiche, diciamo così, “esterofile” della amministrazione locale si celino nuove forme di clientelismo delocalizzato o di nepotismo trasversale. Ciò che invece serve è capire se dietro questi interventi ci sia stata la partecipazione autentica degli abitanti dei luoghi, la loro volontà di vederli a quel modo, la loro disponibilità ad accettarli e a praticarli. Su questo è legittimo avere molti dubbi. Basta farsi delle passeggiate in via Nicola Salvi, in piazza Caduti di via Fani o in piazza Abbazia e constatare quale estraneità ci sia stata tra chi lì abita e i volenterosi fantasmi della rigenerazione coi pennelli in mano.
Il Sud, sosteneva Franco Cassano filosofo caro al sindaco e ad altri della amministrazione, non può essere pensato dal Nord. Ecco, il dramma di Corato è che ormai da diversi lustri, ma soprattutto da un anno e mezzo a questa parte, non è pensato dai suoi abitanti ma ad altri. Da altri che della nostra città non ne conoscono la storia, non ne hanno mai indossato gli abiti, non ne hanno mai respirato l’aria, non hanno mai parlato il suo idioma e che, soprattutto, non avranno né voglia né necessità di abitarla nel futuro.
Una città non si rigenera per delega, né per modelli accademici e neanche per “casi di scuola”. Una città non si rigenera come un pneumatico, una batteria o un computer. Anzi, trovo che il termine “rigenerare” sia del tutto inappropriato. Una città si cura, non si rigenera. La cura è la vita stessa della città. Agli amministratori spetta il compito di curare la città nelle sue ferite più profonde, nelle lacerazioni più dolorose, nei disagi più comuni. Per questo credo che certi interventi, come quelli dei tre luoghi di “Sciucuà” andavano pensati meglio. Soprattutto andavano fatti secondo le necessità della gente del luogo, mantenendo il discreto pudore della spesa, comunicando con i fatti piuttosto che con sequele di eventi e processioni di compagni e compari.
“Sciucuà”, che in coratino si scrive “Scecuà”, ha travisato tutto questo. Chissà se solo tra qualche mese rimarrà qualcosa delle decine di migliaia di euro spesi in vernici e legnami. Chissà se rimarrà qualcosa nella coscienza e nei vissuti dei coratini, oltre la colorata e roboante telenovela comunicativa che a tanti è sembrata una “muina di interessi e propaganda”.
Siamo seri, diamo ai luoghi ciò di cui ha bisogno chi li abita. Per esempio, tanto per iniziare rimuoviamo quella improvvida scritta luminosa che campeggia in via Nicola Salvi e che cinicamente grida all’antica povertà di Corato “Vola solo chi osa farlo”. Come poteva “volare” il popolo erede delle suppenne di don Ciccio Tattoli che per decenni ha messo sul desco solo pane e disperazione? Siamo seri, non giochiamo con i bisogni veri della gente. Soprattutto non lo facciamo ora che il mondo è triste per pandemia, guerra e povertà di ritorno-
Manteniamoci discreti, riflessivi e misurati. Non sciupiamo il pubblico denaro per gioco. Anzi, se possiamo, aiutiamo il prossimo. L’aria che spira questo ispira e questo dobbiamo. Non è tempo di “scecuà”.