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Corrado e lo statista regnante

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Alessandro Magno aveva sempre con sé una copia dell’Iliade, mentre Corrado – da appassionato di studi manzoniani qual è – avrà certamente nella sua biblioteca al pari di don Ferrante una pregiata copia de “Lo statista regnante” di don Valeriano Castiglione. Il libro piccolo e prezioso contiene una serie di consigli e di precetti cui il principe cristiano deve attenersi per eccellere in virtù e sventare le macchine che contro di lui si ordiscono.

Se è vero che don Ferrante è il modello di intellettuale per questa Amministrazione, va da sé che a fronte di un così valido e pronto ausilio ben poco possano i nostri poveri scritti che di certo non aggiungono nulla all’opera del Castiglione. Pur tuttavia – se è lecito tenere traccia della verità come anche dell’errore – vorremmo oggi intrattenere il nostro Sindaco con un apologo ambientato in una Città immaginaria.
Il principe di una lontana contrada reputò giunto il momento di dotarsi di un suo ufficio composto da tre segretari a lui fedeli, assegnando loro il compito di gestire le udienze, tenere la corrispondenza e avere commercio con gli editori e gli scrittori che albergavano in quelle terre. La scelta ricadde su tre giovani donzelle che, individuate tra i cortigiani più fedeli, eccellevano a tal punto per i loro meriti da oscurare il fatto che una di esse fosse proprio la sorella germana di uno degli editori. La circostanza gettò nello sconforto la categoria, dove i più lamentavano che ad uno solo fosse stata data la possibilità di godere di una così forte e naturale protezione. L’occhio vigile del principe pose tosto rimedio, offrendo a tutti la sua liberalità e facendosi mecenate di quanti fossero in età di tenere la penna in mano e di far valere i loro servigi.
I signori che prima avevano retto quelle terre avevano governato con fare misurato, dando a ciascuno in proporzione a quel che il beneficato avesse reso e stabilendo un prezziario dove il valore di ogni servigio o pubblicazione che fosse era minuziosamente definito: per un comunicato tanti scudi, per un foglio a stampa tanti altri scudi e così oltre. Il nuovo principe volle mutare la maniera, bandendo la miseria e dichiarando essere ritornata l’età della splendidezza.
Fu così allora che, senza alcun freno, furono offerte ricompense ai più fedeli o a coloro che più di altri riuscivano a colpire l’immaginazione del sovrano il quale assegnava regalie ed allori secondo il suo genio e senza darsi pensiero alcuno. Intere famiglie di quelle contrade – padre, madre, figlio e parenti prossimi – godettero della munificenza del principe come anche ad alcuni furono assegnati incarichi ed elargiti compensi senza curarsi dei meriti altrui che ugualmente e legittimamente potevano aspirare al medesimo ufficio.
I più scaltri seppero costruire la loro industria sulla generosità del principe, mettendo innanzi delle opere di carità e delle consorterie benevole come paravento e facendo confluire i compensi nelle casse delle società di famiglia. Altri ancora, capendo che la vanità era il punto debole del sovrano, si prodigarono nell’offrire allo stesso quante più occasioni affinché egli si mostrasse ai suoi sudditi con lo sfarzo e la magnificenza che si addicono a chi è nato dai lombi di Giunone regina e Giove imperatore. In quella Città fiorirono fuor di misura tipografi, scrittori, editori… al punto da chiamarne altri dalle Città vicine, tutti presi nell’elogio del principe e delle sue rarissime virtù e impegnati ad annuire con la testa dall’inizio alla fine dei suoi lunghi monologhi al punto da ridurre un povero astante a non discernere più il vero dal falso, la realtà dalla fantasia o anche solo a ricordarsi come si potesse dire di no.
Il principe, all’apice del suo splendore, passava di casa in casa, di convivio in convivio, di palco in palco declamando le sue gesta senza che nessuno osasse o potesse intonare il controcanto, mentre la lista dei suoi cortigiani e dei suoi creditori si allungava sempre di più nella speranza che il Carnevale non avesse mai a finire.
Un giorno il mastro delle finanze, uomo dabbene ma impaniato nella vicenda per uno scherzo del destino, ebbe a fare l’addizione delle spese e ne informò prontamente il sovrano: “Principe, di questo passo le casse del regno si svuoteranno!”. Il Nostro non se ne diede per inteso e, anzi, intensificò la sua azione, quasi che una fornace avesse a divorare il suo regno e che tutto dovesse essere gettato in quella rovina.
Quando, dopo aver fuso anche i bottoni d’argento delle livree dei servitori, gli scudi finirono del tutto e i sudditi – stanchi e disgustati per le soperchierie subite – fecero alto e non vollero più versare il loro obolo nelle casse reali, il principe si ritrovò solo. Le donzelle, i beneficati, le famiglie intere che avevano banchettato alla sua mensa… erano svaniti del tutto così come perfino il trono e lo stemma nobiliare erano stati dati in pegno per ottenere quel poco necessario a non dissestare del tutto in regno. Allora la mancanza di riconoscenza arrivò a tal punto che proprio quelli che più avevano ricevuto si riunirono in lega recandosi al palazzo e scacciandone colui che ora chiamavano l’usurpatore. Il principe, mandato ruzzoloni per le scale dai suoi antichi sostenitori, finì in un fosso. Colà il malcapitato venne raccolto per essere poi ospitato nella casa di alcuni che mai avevano chiesto e che nulla avevano ricevuto, casa dove trascorse i suoi giorni dedicandosi alla coltivazione della nobile pianta del lupino.
L’apologo insegna che quanto più alto sali tanto più fai rumore quando cadi e che nelle alterne vicende sono proprio coloro che non ti incensano che bisogna tenere da conto.

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