Il direttivo ANPI Corato “M. Diaferia”
Nel 1923, Giacomo Matteotti, in piena ascesa del fascismo e pochi mesi prima di essere rapito e ucciso, esortava i leaders Filippo Turati e Claudio Treves a non partecipare alla manifestazione milanese del 4 novembre. Il Milite Ignoto, per il futuro martire socialista, non era un eroe guerriero, ma una vittima innocente di quella guerra sfuggita di mano a classi dirigenti miopi. «Pensavo – scrisse a Turati – anche se noi dovevamo lasciar passare il giorno del Milite Ignoto senza fare nulla, lasciando altrui la brutta ipoteca bellicosa su un simbolo così sentimentale. Noi avremmo potuto richiamarci ad esso come a colui che morì per la patria libera e per un mondo senza guerre… Penserei di riunire il ricordo del Milite Ignoto anche a quello di tutti i nostri morti ignobilmente calpestati in questi giorni».
Due anni prima, lo stesso giorno del 1921, la salma individuata da Maria Bergamas, per conto di tutte le mamme italiane che avevano perso il proprio figlio, in un viaggio-processione era arrivata da Aquileia a Roma rappresentando, come in una sorta di catarsi collettiva, la consacrazione di quel sentimento d’unità nazionale ancora precario.
Il Milite Ignoto, in fondo, è uno dei milioni di giovani travolti dalla ferocia di una guerra studiata a tavolino da una élite politica che, con una retorica nazionalista, fu capace di trascinare dalla sua buona parte dell’opinione pubblica, compresa quella coratina (emblematico fu l’arrivo a Corato di Cesare Battisti che, nel pieno del dibattito tra neutralisti e interventisti, durante un comizio infuocò i presenti). Si trattò del suicidio dell’Europa civile: un’intera generazione, con oltre dieci milioni di morti, un ingente numero di mutilati e invalidi e milioni di sfollati a causa della ridefinizione dei confini degli Stati, venne inghiottita nelle trincee. Il fascismo, poi, anche con i miti della guerra e della vittoria e appropriandosi dell’epopea della trincea, elevò la violenza a metodo di rivendicazione politica.
In questo immane sacrificio non vanno dimenticati anche quei giovani, in tantissimi, che si rifiutarono di partecipare al conflitto subendo pesanti ritorsioni. In Puglia emblematica fu la figura di Giuseppe Di Vagno che, ventiseienne, chiamato alle armi, dopo qualche esitazione, decise di non partire per il fronte. In nome del suo antimilitarismo e pacifismo intransigente, secondo la formula socialista “né aderire né sabotare”, venne internato per ben due volte, prima a Firenze e poi a Sassari.
Tra coloro che si schierarono contro la “retorica della vittoria” va ricordato anche qualche coraggioso insegnante che dietro i banchi di scuola si oppose all’assurdità del conflitto.
Tra questi, sempre sul nostro territorio, possiamo citare la luminosa figura del pedagogista bitontino Giovanni Modugno, tra i più importanti del Novecento. Al suo primo incarico, dal 1908 insegnò nella scuola tecnica “M Imbriani” di Corato, rimanendovi ben sette anni. Furono, quelli, anni di palestra educativa. Nell’immediato Dopoguerra il giovane professore scrisse un bel pamphlet, Il concetto di guerra giusta, entrando in polemica con lo scritto dal medesimo titolo di Sergio Panunzio, socialista rivoluzionario, nel quale questi, con tratti vagamente hegeliani, sosteneva che la giustizia di una guerra si determina col criterio degli effetti che essa produce. “Allora, – si chiese Modugno – la Prima guerra del Risorgimento che non fu coronata dal successo, non fu giusta? Le insurrezioni non riuscite, miranti a un ideale di giustizia, e le sante follie dei persecutori, non sono giuste? Certo bisogna guardarsi dalle insulse velleità e impulsività dei popoli come degli individui; ma col criterio del successo si corre il rischio di negare l’attributo della giustizia alle opere più giuste” (Cfr., G. Capurso, Due maestri del Sud, 2022, Secop).
A maggior ragione oggi con gli scenari di morte e devastazione di una guerra “a pezzi”, riprendendo la formula di Papa Francesco, che sono sotto gli occhi di tutti, il 4 novembre può avere un senso se, più che celebrare improbabili culti militaristi, ci ricorda la necessità di rilanciare e promuovere una cultura della pace incisa nell’articolo 11 della nostra Carta Costituzionale.
L’ANPI nazionale (e con esso l’ANPI locale) sta provando a farlo, per esempio con il raduno del 5 novembre a Roma, chiedendo, supplicando, ai potenti del mondo la fine del conflitto tra Russa e Ucraina, ma anche con un percorso di lenta sedimentazione culturale e pedagogica nelle scuole di ogni ordine e grado attraverso visite guidate, concorsi, incontri a tema e laboratori.