A cura di Gaetano Bucci
Come è noto furono chiamati barbari gli invasori del grande Impero romano in declino politico e militare. Il termine, in realtà di origine greca e corrispondente a “balbuzienti’, deriva dal fatto che quegli invasori provenienti da ogni dove non parlassero la lingua latina ma “balbettavano” idiomi strani e sconosciuti.
I barbari non avevano idea delle grandi conquiste che i Romani avevano fatto in ogni campo; civile, militare, artistico e culturale. Essi praticamente non appartenevano alla civiltà e la civiltà, quella greco-latina, non apparteneva a loro
Il termine “barbaro” si è però tramandato fino a noi, non più e non tanto per indicare stranieri o invasori quanto semplicemente per definire persone o gruppi rozzi a tal punto da non riconoscere i più elementari comportamenti civili, il rispetto delle leggi e delle ricchezze comuni, di praticare il tradimento plateale delle più amate tradizioni o semplicemente di mettere in opera azioni distruttive, magari senza un corrispettivo vantaggio. Per non parlare dei barbari in relazione al gusto estetico e a tutto ciò che costituisce il legame affettivo di una comunità verso la sua identità storica, sia quella legata ai beni materiali e ai luoghi naturali, sia a quella legata ai più eterei e semplici beni immateriali come gli usi, i costumi e le tradizioni. Questo erano e questo facevano i barbari.
A dire la verità, però, negli ultimi decenni il desiderio di cambiamento ad ogni costo, l’imperativo delle rivoluzioni permanenti o il perseguimento dell’utile oltre ogni legittima e plausibile aspettativa ha spinto un po’ tutti verso l’imbarbarimento.
L’imbarbarimento è stato addirittura spacciato per “progressismo”. Il primo ad avvertire e denunciare la paradossale “barbarie del progresso” fu J. J. Rousseau che nell’allontanamento dallo stato di natura vide più un rischio che un acquisto. Pasolini sostenne più o meno la stessa cosa, salvando però il “progresso” ma condannando senza appello lo “sviluppo”.
Infatti, molto spesso storicamente le cose sono andate proprio, e la recente pandemia da Covid 19, saltata fuori da un laboratorio cinese, ne costituisce una ulteriore prova.
Niente di più deleterio è stato quindi il “falso progresso” del cambiamento a tutti i costi; soprattutto per noi mediterranei e italiani, e per noi meridionali, che, non dimentichiamolo, siamo gli eredi delle grandi civiltà del passato le cui vestigia costituiscono una inestimabile ricchezza da conservare, tutelare e tramandare.
Da anni avviene anche a Corato, non diversamente che altrove, di esserci dimenticati completamente di quel passato, nonostante non perdiamo occasione di vantarci delle antiche e nobili origini.
Non solo di quel lontano passato ci siamo dimenticati, ma anche del fatto che negli ultimi due secoli la nostra città è riuscita ad emergere da una storia minore con la creazione sul piano urbanistico, antropico e antropologico di un originale profilo di integrazione di una cultura ed economia agro-pastorale con una cultura artigianale, mercantile ed industriale di notevole valore. Si pensi, per esempio, ai mulini, ai pastifici, alle cantine, agli oleifici e alle tante aziende legate all’agricoltura.
Il centro antico di Corato, non più stretto dalla cinta muraria che correva lungo il corso cittadino, si è nei molti decenni aperto a creare un tessuto costruttivo, abitativo e produttivo “sostenibile”, come oggi si dice. C’erano strade, piazze e spazi pubblici in paese e in campagna che “mostravano equilibrio e armonia” con la terra e la natura. Insomma fino alla metà del Novecento da noi il mondo della vita non tradiva quello della natura, e viceversa.
In particolare, più che quella vana maestosità arrogante dei palazzi a sette piani o di certe mega costruzioni e caseggiati senza verde e senza aria, tipico di Corato era il gran numero di casali, ville e villini che facevano da corona a tutto il centro abitato e la cui caratteristica principale era di essere gemme circondate di alberi, arbusti, piante e fiori di notevole bellezza. Era ciò la rappresentazione dell’emergere al protagonismo storico di una piccola e media borghesia agraria che si era avvantaggiata della fine della feudalità ma che, non per questo, aveva tradito il suo profondo legame con la terra e con la storia.
Un segno oltremodo semplice e meraviglioso del legame affettivo con la terra da parte dei coratini era poi la diffusione in ogni quartiere di balconi fioriti, di piante ornamentali e di essenze arboree “belle e familiari” come le pergole di vite o gli alberi di gelsi lungo tutto l’estramurale, le ville ben curate in centro e addirittura certi alberi monumentalii all’ingresso della città. Questi ultimi non li enumeriamo ma per essi la nostra città di identificava e si distingueva dalle altre non appena vi si entrava.
Poi, a partire dagli anni Settanta, un lento e inarrestabile distruzione della nostra bella “faccia di pietre e piante”, una faccia di civiltà in cui lo “spirito della terra” parlava a tutti; al povero e al ricco, al bambino e al vecchio, al cittadino colto e all’analfabeta. A partire da allora con furia barbarica si sono abbattute molte ville e pertinenze che dovevano essere salvate, acquistate e conservate dal Comune (per esempio villa Capano e villa Friuli), così come diligentemente hanno fatto in altre città dove in esse vi hanno allocato anche importanti servizi pubblici.
Stessa cosa dicasi per certi alberi monumentali che, seppure di privati cittadini, dovevano essere protetti e presi in carico dal comune, o ancora di spazi verdi e vuoti urbani che dovevano mantenere vivo e stretto il legame col passato senza subire cambiamenti radicali tanto distruttivi quanto “barbari”.
Invece, niente di tutto ciò è accaduto. Non solo non siamo riusciti a conservare, ma ogni volta che abbiamo voluto cambiare abbiamo fatto più male che bene, come dimostrano i risultati del rifacimento di alcune strade e piazze.
Quanti progetti si sono fatti più per incamerare quattrini ed accontentare gli amici che per rigenerare davvero e rendere più bella la città?
Da oltre vent’anni ci sono in Italia buone leggi sulla tutela dei beni culturali e ambientali. Esse prevedono la realizzazione di piani di conservazione, tutela, salvaguardia e promozione di tutti i “beni culturali”; materiali, naturali e immateriali. Da noi però pochi ne han parlato fattivamente, nonostante le reiterate “provocazioni” a riguardo, anche del sottoscritto. Nessuna adeguata concretezza conservativa c’è stata nonostante la possibilità di specifici finanziamenti.
Forse conveniva così per non avere ulteriori vincoli urbanistici e non dispiacere il sempreverde “partito del mattone”.
Ora, mentre alcune gigantografie annunciano “Corato si tinge di giallo”, di fatto scopriamo che invece “si stinge di fucsia”. Di fatto scopriamo e denunciamo l’ennesimo oltraggio verso una città sempre più nuda e indifesa; un albero maestoso di via Digione, avvolto in un abbraccio di “bellezza fucsia” da una monumentale buganvillea, è stato abbattuto.
Era forse un simbolo ed una metafora dell’amore della natura per se stessa? Era forse un messaggio silenzioso a noi coratini, sempre più distratti da vuoti cambiamenti? Era forse un correlativo oggettivo come il “giallo dei limoni’ e le “trombe d’oro della solarità” di montaliana memoria? Oppure era una divina esplosione di colore che avrebbe inebriato anche Vincent Van Gogh?
Era forse tutto questo ma noi, duri di cuore e scarsi di occhi, non lo avevamo capito.
Mai domenica di giugno e ricorrenza di Sant’Antonio è stata più triste per Corato come quella appena trascorsa.
La colpa? Di nessuno… se non dell’imbarbarimento, appunto, che la nostra città ha subìto e da cui difficilmente si salverà se non torniamo allo “spirito della terra” di cui stupidamente ci siamo liberati.
Contro i barbari non si può più aspettare. Bisogna fare subito qualcosa. Che cosa dobbiamo fare? Semplice.
Ridiamo vita agli alberi!
Ridiamo vita alla vita!